C’era un tempo in cui il rinnovo del contratto dei metalmeccanici rappresentava la punta più avanzata, un apripista nelle conquiste rivendicative, alle quali i rinnovi contrattuali degli altri settori si ispiravano. Questo si è verificato soprattutto dall’autunno caldo del 1969 in poi, nella fase in cui, sotto la pressione delle lotte spontanee che si manifestavano in quei tempi, si rivendicavano aumenti salariali adeguati al costo della vita, maggior egualitarismo, riduzioni d’orario, condizioni di lavoro migliori e salvaguardia della salute. Poi è iniziato, parallelamente all’avanzamento del compromesso storico, quel percorso a ritroso della riduzione delle conquiste ottenute che è continuato fino alla situazione attuale. In questa scala in discesa, sicuramente il contratto dei metalmeccanici recentemente sottoscritto rappresenta uno dei punti più bassi e, anche rispetto alle altre categorie, un apripista al contrario.
L’approvazione dell’accordo è avvenuta attraverso un referendum promosso da Fim-Fiom-Uilm, terminato il 22 dicembre del 2016. I promotori hanno fornito i dati: votanti 350.749, i favorevoli sarebbero 276.627, pari all’80,11 %, e i contrari 68.695. Sono dati diffusi da una burocrazia sindacale, fatta di professionisti attivi nella consultazione, senza per altro rendere pubblica la certificazione azienda per azienda. Va, in ogni caso, rilevato che solo una esegua minoranza di lavoratori ha partecipato alla consultazione, essendo i dipendenti del settore un milione e 650 mila.
E’ stato definito dai sindacati confederali un contratto di “svolta”, ma si tratta di una svolta unicamente nell’interesse del ceto padronale e dei governi che, come è loro natura, lo rappresentano: un contratto peggiorativo sotto tutti i punti di vista, dal salario, all’orario, alla sicurezza sul lavoro, alla riduzione dei diritti, all’attacco alla previdenza sociale.
L’attacco più pesante è alla voce salariale: per la prima volta, non c’è un aumento salariale certo, ma è previsto un recupero parziale della futura inflazione, dalla quale sarà escluso il costo dell’energia con tutti i suoi derivati. Per il 2017, se l’inflazione viene confermata al 0,5%, ci sarà un aumento di 6 euro netti al mese; per il 2018 l’inflazione prevista sarà del 1% con un aumento di 10 euro al mese; per il 2019 l’inflazione prevista sarà del 1,2% con un aumento di circa 13 euro al mese rispetto al 2018. Quindi, con questa ipotesi di aumento di stipendio nei 4 anni di applicazione del contratto (2016-2019), facendo le somme, si arriva ad un aumento mensile di 29 euro (si parla sempre di netto). Ogni incremento salariale attivato nel corso dell’anno sarà percepito nei 6 mesi successivi. Cifre da capogiro. In compenso ogni dipendente riceverà un una tantum di ben 80 euro per coprire l’intero periodo del 2016, cifra ben al di sotto delle perdite subite per gli scioperi effettuati, e della “vacanza contrattuale” prevista dai contratti stessi.
Anche la struttura del “premio di produzione” riceve con il nuovo contratto un duro colpo, che se ne peggiora l’erogazione trasformandolo in “premio di risultato”, per cui non sarà più garantito e fisso, ma totalmente variabile, e dipendente dal raggiungimento degli obbiettivi di produttività e di profitto che le singole aziende si daranno. In pratica, un meccanismo incontrollabile su cui la voce del padrone regna sovrana, introducendo criteri che dividono le aziende stesse. Saranno, infatti, avvantaggiati nell’ottenere il “premio di risultato” i dipendenti delle aziende di esportazione, e di più grande dimensione. Saranno penalizzati, rispetto ai premi, i dipendenti delle aziende che producono per il mercato interno e quelle di piccole dimensioni (la stragrande maggioranza). I “premi di risultato” diventeranno un ulteriore strumento di divisione fra i lavoratori, rispondente alla logica di metterli in competizione fra loro per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, per cui ci sarà una crescita dei meccanismi di sfruttamento e un aumento dei carichi di lavoro.
Inoltre questo contratto regala ai padroni miliardi di euro attraverso il “welfare aziendale”, su cui le aziende non pagheranno le tasse, accrescendo il debito statale che viene scaricato pesantemente sulle spalle dei lavoratori salariati. Con questa operazione si va a rinforzare progressivamente le logiche privatistiche in ambito sanitario, incrementando un sempre più consistente fondo della sanità privata, dato che l’accordo prevede un aumento a carico delle aziende di 84 euro all’anno per dipendente (passando da 72 a 156 euro) della quota destinata al fondo sanitario METASALUTE, un sistema che mina alla base la struttura sanitaria pubblica. Va rilevato che la Fiom, che si era fin’ora opposta a tale logica di privatizzazione, si adegua. Facendo i conti, complessivamente, finirà nelle casse di METASALUTE la somma di 316.800.000 euro all’anno, un lucroso affare per Fim-Fiom-Uilm che si troveranno a gestirlo assieme a Federmeccanica e Unipol.
Sempre nella logica di incrementare forme di integrazione anche nel campo pensionistico, minando alla base il fondo Pensionistico Pubblico, l’accordo prevede l’aumento dei contributi aziendali al fondo pensionistico COMETA, passando dal 1,6% al 2% (+ 4 euro mensili a testa).
Anche nell’orario di lavoro ci sono dei peggioramenti: la flessibilità passa da 64 a 80 ore, mentre si convalida il raddoppio dello straordinario obbligatorio fino a 80 ore, senza superare le 48 ore settimanali, cosa già prevista dal contratto separato del 2012 sottoscritto da Fim e Uilm.
Per quanto riguarda gli appalti alle cooperative, invece, non è stata concordata alcuna tutela per i lavoratori e le lavoratrici. Un settore, questo, che è in continua crescita ma rimane privo di “clausole sociali” che garantiscano la permanenza dei dipendenti quando c’è un cambiamento di ditta.
Infine, dobbiamo registrare una ennesima grave riduzione dei diritti con la sottoscrizione, nell’odierno contratto, dell’accordo per l’applicazione del Testo Unico del 10 gennaio 2014 (legge deroga), che introduce ulteriori modifiche peggiorative. Un accordo che prevede per le organizzazioni sindacali, e relative RSU elette, firmatarie del Testo Unico, la rinuncia a proclamare lo sciopero contro gli Accordi e i CCNL sottoscritti dalle cosiddette maggioranze, in pratica Cgil-Cisl-Uil, impegnandosi all’applicazione di quanto sottoscritto. In caso contrario, si è sottoposti a pesanti penalizzazioni, anche di forte rilevanza economica, e alla temporanea sospensione della Rappresentanza stessa. Questo è il prezzo da pagare dai sottoscrittori per mantenere la rappresentanza sindacale delle RSU.
Ultima questione, l’accordo prevede anche la trattenuta a marzo 2017 di un contributo associativo straordinario di 35 euro, prelevato dalla busta paga di giugno, ai non iscritti, se non ne faranno la revoca per tempo.
Queste note sul rinnovo contrattuale ci permettono di fare anche una ulteriore considerazione. La pretesa diversità della Fiom, con la sottoscrizione di questo accordo, cade definitivamente e quest’ultima si rivela quale realmente è: un sindacato perfettamente allineato alle politiche padronali e governative. Il segretario Landini, che qualche tempo fa minacciava le occupazioni delle fabbriche quando si parlava di approvare la legge sul Jobs Act, è ora perfettamente in linea, per candidarsi alla sostituzione della Camusso nel prossimo mandato congressuale. I cosiddetti oppositori interni alla Cgil se ne facciano una ragione.
Enrico Moroni